da "la Repubblica" (8 marzo 2007)
La lingua di Provenzano
Un libro ricostruisce il sistema di comunicazione inventato dal capomafia
Un giudice, Michele Prestipino, e un giornalista, Salvo Palazzolo, raccontano la latitanza del boss. E spiegano come abbia funzionato una perfetta rete informativa per proteggere il suo nascondiglio

di Attilio Bolzoni
Chi è il numero 21? E chi è il numero 63? E il 9, il 18, il 44? E, soprattutto, chi è quell’«Adorato Gesù Cristo» che lui ringrazia insistentemente ogni qualvolta i poliziotti piombano in un casolare e non lo trovano mai? Dietro ogni numero c’è un compare, un vivandiere, un parente, un insospettabile, dietro ogni numero c’è un fidato postino dei suoi messaggi di carta. Ma l’«Adorato Gesù Cristo» è qualcosa di più e di diverso da tutti gli altri: è probabilmente l’uomo che gli ha permesso di fare la sua latitanza sempre al riparo, sicura, priva di rischio. Una clandestinità difesa molto in alto e per molto tempo. Dopo la cattura di Bernardo Provenzano l’antimafia è alla caccia dei grandi protettori di Bernardo Provenzano.

L’ultima trama siciliana è giallo ed è anche ricerca, studio di un linguaggio, di uno stile di comunicazione, di un modo di sopravvivere. È il gergo della vecchia nuova mafia di Corleone.

Quella che era partita come inchiesta giudiziaria nel lontano giorno che - nel 1994 - intercettarono i primi «pizzini», è diventata oggi anche un libro che tenta di spiegare il potere di un capo avvolto nel mistero per quasi mezzo secolo. Il titolo anticipa tutto il resto: Il Codice Provenzano. L’hanno scritto un magistrato e un giornalista. Il primo è Michele Prestipino, il sostituto procuratore della Repubblica di Palermo che per otto anni ha inseguito il Padrino con i poliziotti di un reparto scelto. Il secondo è Salvo Palazzolo, un giornalista di Repubblica che da otto anni raccoglie anche il più piccolo dettaglio sulla vita del boss dei boss di Corleone. Il Codice Provenzano (Laterza, pagg. 332, 15 euro) sarà in libreria da questa mattina.

Più che un racconto è un documento che entra per la prima volta nel «sistema di informazione» e trasmissione di notizie inventato dall’ultimo dei Corleonesi, una sorta di ministero speciale delle Poste che ha consentito a Provenzano di sfuggire a intercettazioni ambientali e telefoniche, di neutralizzare le più sofisticate apparecchiature utilizzate dagli «sbirri» che lo braccavano.

Nel libro sono raccolti o ricordati praticamente tutti i «pizzini» sequestrati al Padrino e ai suoi fedelissimi di cosca fino all’11 aprile del 2006, l’ultimo giorno di libertà di Bernardo Provenzano dopo quarantatré anni. È un archivio. Ordini mandati in tutta la Sicilia dentro bigliettini arrotolati con lo scotch, disposizioni segretissime, spedite con un esercito di messaggeri che se le passavano di mano in mano.

«Chi sono i misteriosi destinatari dei messaggi indicati dal capo di Cosa Nostra con la sequenza di numeri da 2 a 164?», è questa la domanda dalla quale parte l’indagine sul Codice. Da 2 a 164. E poi, sempre quell’«Adorato Gesù Cristo» citato con maniacale cura dal Padrino. E mai a sproposito. Mai per caso.

Come quella volta che Bernardo Provenzano rassicurava il suo braccio destro Antonino Giuffrè. Il capo dei capi era appena sfuggito alla cattura mentre un altro dei suoi colonnelli - Benedetto Spera - era stato preso. Scriveva il Padrino: «Grazie ancora per la tua disponibilità per una due settimane lato Cefalù, se era 25 20 giorni addietro sarebbe stata una Grazia, ma grazie al mio Adorato Gesù Cristo al momento ha provveduto lui».

Chi era lui? E quante altre volte aveva «provveduto» per avvisarlo di una retata, di un’indagine pericolosa, di una microspia? «Solo in apparenza Bernardo Provenzano è stato il più fortunato dei Padrini. Ma non è così», scrivono Michele Prestipino e Salvo Palazzolo addentrandosi nella decifrazione del Codice e ricordando la lunga lista dei blitz falliti, delle ricerche impantanate, delle piste investigative affossate dagli spifferi. Come accadde nella primavera del 2002.

Era marzo, in una di quelle antiche masserie della campagna siciliana i boss si erano dati appuntamento per un summit. Prima di cominciare la «riunione», uno di loro fece cenno a tutti gli altri di stare zitti. Poi cominciò a cercare qualcosa in una stanza, quando la trovò puntò quell’oggetto verso il pavimento. Era una telecamera. L’avevano sistemata là i carabinieri. Da un monitor, in caserma videro in diretta solo i piedi di alcuni uomini. Erano quelli dei boss. Qualcuno li aveva messi all’erta.

Chi? Un «pizzino» del vecchio Bernardo Provenzano consegnato al solito Giuffrè: «Faccia guardare, se intorno all’azienta, ci avessero potuto mettere una o più telecamere, vicino ho distante, falli impegnare ad osservare bene, e con questo, dire che non parlano, né dentro, né vicino alle macchine, anche in casa, non parlano ad alta voce, non parlare nemmeno vicino a case né buone né diroccate, istruiscili, niente per me ringraziamenti. Ringrazia a Nostro Signore Gesù Cristo».

Una delle tante soffiate partite dagli uffici investigativi, uno dei tanti servizi fatti al Padrino. «Difficile pensare che Bernardo Provenzano avesse avuto il privilegio di una visione divina che gli aveva rivelato l’esistenza di una telecamera», commentano il magistrato e il giornalista che - pizzino dopo pizzino - hanno scoperto qualcosa di veramente sorprendente nel sistema di comunicazione fra il boss di Corleone e i suoi: l’arte dello storpiare le parole. Sarà anche un mezzo analfabeta il vecchio Bernardo, ma quei messaggi sgrammaticati, quelle parole in siciliano duro, quei pensieri attorcigliati che riempivano i suoi messaggi erano tutti concordati. Erano il Codice.

A pagina 44 del libro c’è una rivelazione che conferma quella tecnica di scrittura scelta dalla mafia di Corleone. Viene riportata la registrazione di una telefonata intercettata fra Pino Lipari - uno degli insospettabili al servizio del clan - e suo figlio Arturo: «Io sgrammaticatizzo.. è fatto apposta, hai capito? Sbagliare qualche verbo, qualche cosa... mi hai capito Arturo?». Come se dietro ogni errore ci fosse una chiave per decifrare, come se dietro ogni parola malamente scritta ci fosse un segreto. E’ ancora dalle chiacchiere captate da una microspia che affiorano altri sospetti. Ed è sempre Pino Lipari che discute con il figlio Arturo a proposito di uno dei pizzini di Provenzano: «L’hai letto tu? Però non era tutto completo, vero?».

Il figlio è agitato, capisce di non avere ricopiato bene il messaggio del Padrino da portare a suo padre. Si giustifica: «Ma c’erano un sacco di Ave Maria...». Il padre si arrabbia, lo rimprovera: «Un´altra volta tutta, perché in mezzo all’Ave Maria io devo capire». I riferimenti religiosi - sempre presenti nei bigliettini di Provenzano - trasportavano informazioni criptate. Dal numero 2 al numero 164, da un’Ave Maria a un Buon Gesù.

Misteri del passato e misteri del presente. «L´arresto del Padrino di Corleone non ha rappresentato la fine della lotta alla mafia», scrive il pubblico ministero Prestipino. E aggiunge: «Perché ancora molti sono i misteri da svelare. Dietro il codice si nascondono i nomi dei mafiosi reclutati dopo le stragi del 1992 e le tracce degli insospettabili complici».

Ma dopo la sua cattura chi ne è diventato il depositario? Chi conosce la chiave per decrittarlo? Gli indizi sono solo nei pizzini. Il magistrato e il giornalista li hanno studiati per mesi, esaminati da varie angolature. Hanno anche ipotizzato che ci sia un cifrario nel cifrario. Molti pensieri del Padrino sono citazioni della Bibbia accompagnati da sequenze di lettere e altri numeri. «Il Signore vi benedica e vi protegga», era il saluto che c´era in ogni foglietto. Frase tratta dal Vecchio Testamento, libro dei Numeri, capitolo 6, versetto 24.

Un’ostentazione di religiosità che si ritrova sempre. E a volte nemmeno tanto criptica. Come questa: «Preghiamo il Nostro buon Dio, che ci guidi, a fare opere Buone». Favori. Da avere e da offrire.

Il Codice è come una via che ha attraversato la Sicilia. Con lui, il Padrino, sul ponte di comando. Cercando di essere sempre uguale e sempre diverso. L’ultimo volto è stato quello di «Pilato», così almeno riferisce quell’Antonino Giuffrè che gli è stato accanto per tanti anni prima di pentirsi. Bernardo Provenzano come Pilato per quel suo modo di prendere sempre tempo, di non decidere mai subito. Un’altra arte, quella dell’indugio. Ogni pizzino è un capolavoro di rallentamento, di pausa. Di incertezza.

Cos’è dunque, alla fine, il codice Provenzano? Il magistrato e il giornalista, nelle ultime pagine del loro bel libro, rispondono: «E’ stato un sistema di comunicazione dinamico, che era composto da relazioni in evoluzione». Relazioni che nascondono anche il vero segreto dei delitti eccellenti di Palermo: Mattarella, Dalla Chiesa, La Torre, Falcone, Borsellino. Ma il codice è anche la combinazione per aprire i grandi forzieri delle ricchezze alla mafia siciliana. Quelle mai trovate.

dal "Corriere della Sera" (8 marzo 2007)
Relazioni occulte dietro i delitti
I segreti del "codice Provenzano"
di Giovanni Bianconi
Undici mesi fa, la cattura che segnò la svolta. Quando il pubblico ministero Michele Prestipino varcò la soglia del covo di Montagna dei Cavalli, alle porte di Corleone, dove era stato appena arrestato Bernardo Provenzano, ebbe la sensazione di entrare nel cuore di Cosa Nostra: «C’ era l' archivio della mafia. La casa dove viveva il capo, il tavolo del comando». La svolta, appunto. Perché non solo era stato preso Provenzano dopo 43 anni di latitanza, ma pure la sua corrispondenza «in entrata e in uscita». I famosi pizzini, termine divenuto da allora di uso corrente, che insieme a quelli sequestrati quattro anni prima al suo braccio destro Nino Giuffrè fornivano il quadro d' insieme dell' attività quotidiana della mafia: «Non solo quella più nota delle estorsioni e degli appalti, ma pure quella meno nota come le raccomandazioni, le relazioni tra capi e sottocapi, i rapporti familiari».

Undici mesi dopo l' analisi di quelle lettere scritte e ricevute dal capo di Cosa Nostra è diventata un libro firmato da Prestipino, il pm che coordinò le indagini per arrivare al boss e al suo archivio, e dal giornalista Salvo Palazzolo. «Un' analisi e un tentativo di riflessione che le inchieste giudiziarie non consentono», spiega il magistrato. Ne è venuto fuori Il codice Provenzano, edito da Laterza, trecento pagine per capire il contenuto di ciò che s' è scoperto e quello che c' è ancora da scoprire. Perché proprio quei pizzini confermano i lati oscuri dell' attività mafiosa su cui nemmeno la cattura di Provenzano ha permesso di fare luce. «Quel sistema di comunicazione è arcaico ma sicuro, però non è l' unico», dice Prestipino ricordando la lettera inviata a Provenzano da Matteo Messina Denaro - boss trapanese tuttora latitante - che «indicava "l’ altra via", ovvero un altro pizzino ancora rispetto a quello della risposta ordinaria, per l' indicazione del nome del politico desiderato. Come se esistesse un livello di trasmissione dei messaggi con un codice di sicurezza più elevato. E con postini ancora più riservati».

E' uno dei segreti che resistono all' arresto di Provenzano. L' altro è quello delle relazioni esterne e occulte di Cosa Nostra. «Sono rapporti tenuti e gestititi direttamente dai capi - spiega Prestipino -, prima Riina e poi Provenzano, in alcuni momenti decisivi della vita dell' organizzazione e del Paese. Momenti che coincidono con le stragi e gli omicidi eccellenti». Non si tratta di illazioni, ma di considerazioni degli stessi capimafia scritte nei pizzini o incise sui nastri delle intercettazioni ambientali. Come le considerazioni del boss di Brancaccio Giuseppe Guttadauro, che a vent' anni di distanza dell' omicidio del generale Carlo Alberto dalla Chiesa, 1982, ancora si dannava: «Ma chi cazzo se ne fotteva di ammazzare a Dalla Chiesa... Perché glielo ha fatto questo favore?». Un delitto non solo di mafia, dunque, come ebbe a dire Tommaso Buscetta e come confidò il killer di Cosa Nostra Pino Greco all' altro pentito Tullio Cannella: «Io ho avuto uno scherzetto in questo omicidio, e ' stu scherzetto me lo fece u ragioniere», cioè Bernardo Provenzano.

Dietro i delitti eccellenti, insomma, si nascondono le relazioni occulte del boss che inquietano gli stessi mafiosi. Poi, dopo le stragi del ' 92 e del ' 93, ha intrapreso la strada della sommersione. Per meglio condurre i suoi affari e per accumulare ricchezze con maggiore tranquillità. «Anche in questo settore - dice Prestipino - rimane un segreto: il resto delle ricchezze di Provenzano. Noi abbiamo sequestrato e confiscato beni a lui direttamente o indirettamente riferibili per milioni di euro, da negozi e magazzini, residence e appartamenti fino a un negozio nella via "salotto buono" di Palermo. Ma ce ne sono certamente altre, di valore ancora maggiore. E il fatto di averlo preso in una masseria, tra la ricotta e la cicoria, non deve ingannare. A parte che stava lì da un anno e mezzo, e per i quaranta precedenti non sappiamo dove ha vissuto, lo stile di vita sobrio ma comunque ricercato, come dimostrano e i maglioni di cachemire e i pantaloni di marca, non contrasta con l' accumulo di una smisurata ricchezza».

La caccia al tesoro di Provenzano, insomma, continua. Così come continuano le indagini per scoperchiare il mondo sommerso delle collusioni della cosiddetta «borghesia mafiosa» con il capo di Cosa Nostra. «Una zona grigia - spiega il magistrato - che è cosa diversa dall' organizzazione, ma che ha degli interessi in comune da cui nascono complicità e coperture». Inchieste sui «colletti bianchi» collegati a Cosa Nostra negli ultimi anni ce ne sono state, dai medici agli imprenditori. Ma dai pizzini emergono numeri riferiti a persone non ancora identificate. E chissà che significato hanno, secondo Il Codice Provenzano, i continui riferimenti a Nostro Signore Gesù Cristo, ringraziato anche quando il boss metteva in guardia Giuffrè da telecamere e microfoni: «Difficile pensare al privilegio di una visione divina che gli aveva rivelato l' esistenza di una telecamera dei carabinieri nel casolare di Vicari dove si svolgevano incontri e summit. Eppure, di certo, nel marzo 2002 una manina ben informata la spostò verso il basso. Da quel momento si videro solo piedi, e non si sentirono più voci».

Ma se l' arresto del boss non ha svelato tutti i misteri, sono almeno scongiurati i misteri sull' arresto? Il pm che per anni ha diretto le indagini sfociate nella storica cattura garantisce: «I fatti sono andate esattamente come risulta dagli atti depositati e utilizzati nel libro. Del resto nessun capo si fa prendere a casa sua, con i suoi effetti personali, l' archivio, né fa arrestare chi gli stava facendo il favore di garantirgli la latitanza. Non ci sono misteri né trattative segrete. C' è solo la consapevolezza che quell' arresto non ha chiuso la partita. E' una tappa importante, la dimostrazione che Provenzano non era un vecchio vessillo bensì un capo in piena attività, dentro la mafia e nelle relazioni esterne dell' organizzazione. Ma non è il traguardo finale. C' è molto altro da scoprire, ed è proprio questo il momento in cui rafforzare e rendere ancora più incisiva l' azione antimafia».

da "Agenzia Reuters" (8 marzo 2007)
Il Codice Provenzano, la risposta della mafia a Dan Brown
di Antonella Ciancio
MILANO - Non è nato dal computer di un autore di bestseller come Dan Brown, ma dalla macchina da scrivere del "boss dei boss" Bernardo Provenzano, il "codice" della mafia da oggi in libreria.
Ricostruito pazientemente da un giornalista e dal magistrato che l'11 aprile 2006 tolse la libertà all'ultimo padrino dopo 43 anni di latitanza, "Il Codice Provenzano" è il più grande archivio della mafia mai rinvenuto.
"Questo libro è Cosa Nostra spiegata da Cosa Nostra. La mafia spiegata dalle parole dei mafiosi", dice il sostituto procuratore della Direzione Distrettuale Antimafia Michele Prestipino, autore del volume con il giornalista Salvo Palazzolo, in un'intervista telefonica a Reuters, da Palermo.

Il libro edito da Laterza pubblica per la prima volta oltre 45 "pizzini" - minuscoli messaggi di carta ripiegati eredità di un'antica tradizione popolare, infilati tra le dita e passati di mano in mano - con cui il boss di Corleone ha comandato una rete silenziosa e occulta di interessi criminali, racket e complicità non del tutto decifrate.
"L'intenzione del libro è offrire uno spunto di riflessione su quello che è stato il più grande archivio di mafia mai rinvenuto", spiega Prestipino.

IL CODICE DEL SILENZIO
Nato 74 anni fa e soprannominato Binnu "u tratturi", il trattore, per il modo con cui aveva ucciso un capomafia, Provenzano è stato il capo indiscusso di Cosa Nostra dal 1993 - anno dell'arresto di Totò Riina, l'ideatore della strategia stragista - fino all'11 aprile 2006.
Latitante per 43 anni, distante dalla linea "dispotica" di Riina, Provenzano ha scelto la mediazione silenziosa e la parola scritta per gestire il più a lungo possibile gli affari della cupola mafiosa.

"Il linguaggio di Provenzano è stato ed è l'unico strumento di conoscenza di un personaggio che per oltre 10 anni è stato il capo di Cosa Nostra", dice Prestipino. I "pizzini" sono "il suo verbo", lo "specchio della sua persona", aggiunge il magistrato.
Ancora oggi, dal carcere di massima sicurezza dove sconta una ventina di ergastoli sotto il duro regime del 41 bis, il boss continua a tacere.
Il suo codice, che non è il primo nella storia della mafia e muta nel tempo, assegna sigle fatte di lettere e numeri - da 1, il numero di Provenzano, a 164 - ad autori e destinatari dei messaggi. Si tratta di mafiosi che interloquiscono direttamente con il boss, chiedendo anche favori per conto di altri esterni alla mafia. Missive sgrammaticate, composte da un uomo che ha lasciato la scuola dopo la seconda elementare, dense di citazioni religiose.

"RINGRAZIA GESU' CRISTO"
Uno dei suoi complici più misteriosi e ancora da identificare è "l'adorato Gesù Cristo", che Provenzano ringrazia in un messaggio per avergli svelato le telecamere nascoste nel casolare di Vicari dove si tenevano i summit.
"Niente per me ringraziamenti. Ringrazia a Nostro Signore Gesù Cristo", scrive Provenzano in un pizzino.

"Non sappiamo se (Gesù Cristo) corrisponde a una persona fisica, a un'entità. Certamente esiste in modo specifico e concreto. E' difficile ipotizzare che la Divina Provvidenza sappia e venga a conoscenza dei luoghi in cui la polizia e i carabinieri hanno installato telecamere, microspie", commenta il sostituto procuratore.
Gli inquirenti stanno cercando di capire se vi sia nelle citazioni tratte dalla Bibbia e nella "maniacale" religiosità di Provenzano un altro codice nascosto.
Il giorno dell'arresto, nel covo di Montagna dei Cavalli, nel Corleonese dove il boss era tornato per trovare appoggi, c'erano 91 santini, quadri religiosi con una copia dell'"Ultima cena" di Leonardo Da Vinci, due macchine da scrivere e una Bibbia, edizione febbraio 1978, contenente numeri e annotazioni sistemate con ordine tra i versetti della Sacra Scrittura.

Più volte Provenzano ha chiesto di riavere la sua Bibbia, che è custodita al sicuro. Anche l'Fbi ha chiesto di consultarla per cercare di decriptarne i messaggi.
"Sicuramente era un documento personale di Provenzano, che aveva da molti anni. Uno strumento di lettura quotidiana", ricostruisce Prestipino. "Se poi in queste glosse si nasconda un Codice, questo è un risultato al quale non siamo pervenuti".
Ora che l'ultimo padrino è in carcere, "chi detiene i segreti del suo codice?" si domandano gli autori.
"Probabilmente non c'è un capo che abbia sostituito Provenzano", perché la sua esperienza non è sostituibile, spiega il magistrato. "Credo si possa ipotizzare una diversa forma di comando", conclude. "Un regime in cui ognuno governa il proprio territorio senza danneggiare il vicino".
ha collaborato Philip Pullella

 
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