Il dottore Giuseppe Guttadauro, valente medico chirurgo, sarebbe diventato primario se non avesse sofferto qualche disavventura giudiziaria a causa dei pentiti. Lui aveva scelto, senza alcun dubbio, di ricoprire la carica di padrino di Brancaccio, storico clan di Cosa nostra. Scontò il carcere a cui lo avevano condannato e all’inizio del 2001 tornò a riaprire il suo salotto, nella nuova casa del centro città. Via De Cosmi 15. Come se il tempo passato in cella non fosse mai trascorso. Come se Palermo non fosse mai cambiata, come se le stragi Falcone e Borsellino non fossero mai avvenute. Il dottore Guttadauro non tornò proprio ai margini della comunità civile: la cimice piazzata dai carabinieri del Ros nel bel salotto di via De Cosmi iniziava a registrare un gran via vai di politici e professionisti di ogni tipo.

Uno dei più assidui era Mimmo Miceli, pupillo dell’Udc del leader indiscusso Totò Cuffaro, destinato a diventare assessore alla Sanità della giunta comunale di Diego Cammarata. Sì, infondo, Miceli era stato collega di Guttadauro all’Ospedale Civico. Ma quelle chiacchierate in salotto non erano solo un ricordo dei vecchi tempi. Se ne accorsero presto gli investigatori.Nel salotto si parlava di elezioni regionali e candidature. Guttadauro decise di puntare su Miceli. Si parlava di poltrone di tutti i tipi, per la politica, gli enti pubblici e gli ospedali. La campagna elettorale per le votazioni regionali era momento aggregante di tutto. Non senza qualche timore: «Tu hai visto qualcuno che ti ha seguito fino a casa?», diceva il boss a Miceli, la sera del 6 febbraio 2001. Fu lo stesso boss a rassicurare: «Qua non ce n’è... la macchinetta ce l’ho dentro per guardare». La macchinetta è l’apparecchiatura elettronica che serve per rilevare le cimici. Guttadauro ne aveva comprate ben quattro e li aveva distribuite ai suoi collaboratori. Ma lui non era stato in grado di farla funzionare.

Se ne accorse presto Guttadauro. Anche se non voleva crederci ancora. A metà giugno ricevette l’improvvisa visita del medico Salvatore Aragona, alle spalle una condanna per concorso esterno in associazione mafiosa, un presente da imprenditore con la passione della politica: si divideva fra Milano, Palermo e le segreterie dell’Udc di Cuffaro. Il 12 giugno 2001, prese un aereo in tutta fretta per la Sicilia. Appena arrivato, corse alla segreteria politica di Miceli, in via Libertà 56. Poi, la stessa sera andò a casa di Guttadauro. Gli investigatori del Ros non lo mollarono un attimo. Aragona aveva una notizia importante da comunicare: «La Procura sta intercettando, la Procura sta indagando». E citò la sua fonte: «Totò».

Fu il 30 luglio di quel 2001 che Totò Cuffaro, fece la sua comparsa nell’inchiesta del Ros con la sua faccia: era presidente della Regione da quasi tre settimane, alle 9, all’hotel Excelsior di via Marchese Ugo, c’erano due persone ad attendere il nuovo governatore della Sicilia. Il solito fidato uomo di partito, Mimmo Miceli, e il cognato del Giuseppe Guttadauro, quel dottor Vincenzo Greco condannato nel ‘96 per aver curato Salvatore Grigoli, il killer di padre Pino Puglisi, il parroco di Brancaccio ucciso dalla mafia nel 1993. Ad attendere Cuffaro c’erano anche i carabinieri del Ros, ben mimetizzati, armati di telecamera nascosta in un’auto civetta. Nel filmato, si distingue chiaramente Cuffaro che arriva puntuale alle 9 davanti all’Excelsior, saluta i due professionisti e con loro entra dentro l’albergo. Alle 9.10 Vincenzo Greco uscì dall’hotel e andò via. Alle 9.25 gli investigatori inquadrarono ancora Cuffaro e Miceli mentre si congedavano.

Nel dicembre del 2002, il boss di Brancaccio è stato arrestato. Diventate pubbliche le intercettazioni a casa sua, l’assessore Mimmo Miceli si è dimesso. E nel giugno 2003 è finito in manette pure lui. Da allora è in carcere: Secondo la Procura avrebbe fatto da tramite tra il medico capoclan e il presidente della Regione Siciliana, che in quei giorni di giugno è finito pure lui indagato. Interrogato in Procura, il governatore ha negato qualsiasi rapporto equivoco con i boss, ha negato di aver mai ricevuto richieste illecite da parte di Guttaduro, tramite il suo pupillo di partito. Ha solo genericamente ammesso che «era notorio, in ambiente politico» il rapporto fra Miceli e Guttadauro.

Chi ha parlato è stato piuttosto il medico Aragona, che un mese dopoha cominciato a collaborare con i magistrati.

Intanto, in quei mesi, i carabinieri del Nucleo Operativo di Palermo indagavano sulle indicazioni fornite dall’ultimo pentito di mafia, Nino Giuffrè. L’ex componente della Cupola aveva rivelato ai magistrati della Procura che il magnate della sanità privata siciliana, l’ingegnere di Bagheria Michele Aiello, era un prestanome del capo di Cosa nostra Bernardo Provenzano, la primula rossa ricercata dal 1963. Intercettati i suoi telefoni, emersero subito curiosi contatti con un maresciallo della Dia in servizio alla Procura, Giuseppe Ciuro, e con un maresciallo del Ros, Giorgio Riolo, l’esperto in tecnologie che aveva piazzato le microspie nelle abitazioni del boss Guttadauro e di tanti altri mafiosi.

Si parlavano attraverso una rete di cellulari dedicati. Aiello-Ciuro-Riolo. Come lavorassero nello stesso ufficio, nella stessa squadra. E nella rete correvano fughe di notizie. Per questo, il 5 novembre 2003, i carabinieri del Nucleo Operativo hanno arrestato Aiello, Ciuro e Riolo. Tre mesi dopo, manette anche per il deputato regionale dell’Udc Antonio Borzacchelli. Lo stesso giorno, il presidente della Regione riceve un nuovo avviso di garanzia con l’accusa di rivelazione di notizie coperte dal segreto istruttorio.

L’ingegnere Aiello ha continuato a negare la sua mafiosità (piuttosto si ritiene vittima dei boss) ma non ha avuto tentennamenti ad accusare: «Qualche giorno prima del mio arresto, a ottobre, è stato Cuffaro a dirmi che c’erano delle indagini su Riolo e Ciuro. Aveva ricevuto queste notizie da Roma, non so da dove». La solita cimice dei carabinieri seguì il prima e il dopo quel misterioso incontro con Aiello, in un negozio di abbigliamento di Bagheria. Il presidente Cuffaro continua a ribadire la sua innocenza e i rapporti trasparenti con il manager Aiello.

Alla fine, è crollato anche il maresciallo Riolo: «Provo vergogna - disse -mi sono lasciato attrarre da un mondo fatto di giochi di potere, denaro e malaffare». E svelò che era stato lui a rivelare al deputato Borzacchelli, maresciallo dei carabinieri in aspettativa, che le microspie avevano seguito Miceli nel salotto del padrino di Brancaccio.

DOCUMENTI
Inchiesta Talpe. La memoria della Procura di Palermo all’Ufficio Gip.

 

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